Diego, il calcio che sognavamo

Roberto Beccantini25 novembre 2020

Diego Armando Maradona è stato troppo per tutti, anche per sé stesso. Dimenticarlo sarà impossibile. Ci ha lasciato a 60 anni, l’età che avevamo celebrato non più tardi del 30 ottobre. L’ultimo tango. L’ultimo dribbling. Nato povero, si inventò ricco di talento, così ricco da poter dissipare il sabba che lo circondava e che la sua bulimia, generosa e infinita, aveva contribuito a costruire.

Per me è stato il più grande, più grande persino di Pelé. Gianni Brera lo definì «divino scorfano». Aveva un sinistro ora violino ora coltello; il regolamento, ai suoi tempi, premiava i difensori, e per questo molti, non solo Andoni Goikoetxea, si diedero alla caccia delle sue caviglie. Era un leader naturale in campo e, appena fuori, un seduttore di popoli. Scelse Napoli e la tirò fuori dal medio evo dei luoghi comuni in cui si crogiolava o in cui la tenevamo prigioniera. Vinse un Mondiale quasi da solo – dopo aver battuto, da solo, Inghilterra (di mano e di prodigio) e Belgio – portò al Napoli i primi (e unici) scudetti della storia, la Coppa Uefa, oltre a una Coppa Italia e a una Supercoppa.

Fatico a scrivere cose che, in suo onore, non siano già state scritte o dette. Bambino, palleggiava negli intervalli delle partite. Adulto, continuò a palleggiare nel cuore delle ordalie più rusticane, dispensatore di una prodigalità che portò i compagni a perdonargli tutto, droga, donne, eccessi. Faceva vincere: what else?

Non è stato un ruffiano in un mondo che, se lo fosse stato, lo avrebbe venerato più di quanto non lo abbia usato, per poi buttarlo quando ritenne che fosse arrivato il momento. I campioni hanno bisogno di una squadra; i geni, di una palla. Ecco perché sono sempre andati d’accordo, almeno loro, almeno per novanta minuti alla settimana. Lo rivedo bambino,
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I carri attrezzi

Roberto Beccantini24 novembre 2020

L’importanza dei carri attrezzi. Il solito, Cristiano Ronaldo. Suo, il pareggio con un sinistro da chirurgo che ha punito il ritardo di Dibusz. E l’altro, sempre meno insolito: Morata. Era entrato al posto di capitan Dybala che Pirlo cerca, correttamente, di recuperare dal vivo. Quando ormai il pari sembrava scolpito e l’orologio tiranno, la «quarta scelta» ha incornato un cross di Cuadrado e confuso – ancora una volta, per l’ultima volta – il povero portiere.

La rimonta vale gli ottavi di Champions e poco altro. Pirlo aveva raccomandato testa, la Juventus invece ha fatto di gamba sua. Avrà pensato, immagino, che la lezione dell’andata sarebbe bastata. Invece no. Difesa fitta, ma alta, il Ferencvaros di Rebrov. Con Zubkov e Uzuni a fare i guastatori. Il gol di Uzuni, al di là della scivolata di Danilo e della vaghezza di Szczesny, casuale non fu. Ci stava.

Brutta Juventus: molle, pigra, sazia. Dybala cercava la forma tocchettando e spesso finiva in fuorigioco, con Cristiano e Bernardeschi. Perché sì, il movimento senza palla era tirchio, e a nessun braccio levato, in segno di vita o di invito, corrispondeva un salvagente dignitoso, un lancio profondo. In questi casi il rischio, di solito, vale la candela: prima o poi i difensori si appisolano e i centimetri premiano l’attaccante. A patto che non ci si rifugi, come ha fatto Madama, in un torello sterile, orizzontale, da Arthur a Cuadrado da Cuadrado a Bentancur (recuperi tosti, almeno) e così indietro.

I pali di Bernardeschi e Morata, il mezzo miracolo di Dibusz sul marziano non vanno trascurati, come il lancio con cui Danilo ha fiondato Cuadrado. Prezioso lo scudo di De Ligt. E poi i cambi, naturalmente. Decisivo Alvaro, non gli altri: da Chiesa a Kulusewski. Sullo svedese: se Cuadrado fa l’ala, Dejan tende ad accentrarsi. E se si accentra, o dribbla o si perde. Si è perso.

Segnali (non di fumo)

Roberto Beccantini21 novembre 2020

Troppo dominante, il primo tempo, perché la Juventus potesse dilapidarne i tesori. Tornava De Ligt, prezioso, c’era Arthur a distribuir palloni, Bernardeschi a tirare (ebbene sì) e Cristiano, come al solito, a sequestrare il tabellino: con un palleggio-arresto-e-tiro, l’incipit; di mezza acrobazia, su sponda aerea di Demiral, il bis.

E il Cagliari? Ne aveva fuori per covid (Godin, Nandez: travi, non pagliuzze) e aveva iniziato pressando alto. Un pugno di minuti, non di più. Piano piano, Madama si è presa il campo. Soprattutto a destra (con Cuadrado, con Kulusevski). Penso che sia questa la filosofia che piace a Pirlo. Difesa a 4, calcio rapido, pratico, aggressivo, non di attesa come all’Olimpico, con la Lazio. Di Francesco gettò le basi del Sassuolo moderno e battezzò Zaniolo, nella Roma, addirittura al Bernabeu. Proprio per questo mi ha deluso: di una timidezza esasperata, la crociera. Altra musica, quando Sottil, un’ala, ha avvicendato Tripaldelli, un terzino.

Morata, lui, incanalava il traffico. Rabiot, che preferisco in un centrocampo a tre, si fiondava. In parole povere, una Juventus padrona e capace di governare persino le flessioni, i campanili, gli sbadigli. Relativi i rischi: e comunque, largamente inferiori al numero delle opportunità, su angolo (traversa di Demiral) o in contropiede (Morata, Kulusevski, Bernardeschi, Dybala, il cui ingresso non è stato drammatico come chez Caicedo).

Che segni Cristiano, non è una novità. Che segni solo lui, questo sì, può diventare un problema. Le notizie, viceversa, riguardano Bernardeschi, spuntato dalla botola, e la coppia De Ligt-Demiral (da Bonucci-Chiellini, gira il mondo gira nello spazio senza fine). Di Arthur ho scritto: è un «postino» che incolla i francobolli sulle buste e le porta a domicilio. Non chiedetegli la magia di un qualcosa che non sia il tocco corto. Uomo d’ordine è.